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Come tutto è cominciato

Parisini Classe-min

All’inizio abbiamo sempre davanti una pagina bianca. A scuola, al lavoro, nella vita. Si dice che sta a noi scriverci sopra i nostri progetti e magari dopo un pò di tempo andare a rileggere quei fogli (veri o immaginari) per capire se si sono realizzati o meno. Dunque Scrivere (su carta o su computer) e Leggere (a voce alta o dentro di noi): tutto o quasi sembra essere racchiuso in due verbi. Ma anche due azioni che all’inizio del nostro percorso non siamo in grado di mettere in pratica semplicemente perché non lo sappiamo fare.

Un periodo di circa cinque-sei anni in cui non possiamo tradurre pensieri e idee in una lingua comprensibile a chi invece è già capace di farlo. Ad ognuno di noi – bambini e bambine, belli o brutti, ricchi o poveri – però ad un certo punto viene come “in soccorso” una persona che ci insegna con quali segni disegnare la nostra immaginazione e come interpretarla a parole. Scrivere e Leggere dunque. A quell’età nessuno lo considera un aiuto (aggiungo: il più grande aiuto), anzi piuttosto lo vede come un’ingiusta costrizione che lo obbliga ad abbandonare ogni giorno la casa e la famiglia. Pochi si ricordano il momento esatto in cui hanno imparato a farlo, quanto tempo ci hanno messo, gli errori che all’inizio commettevano. Una sorta di “nebbia infantile” in cui navighiamo con difficoltà, ma dentro la quale, magari sforzandoci un poco, siamo in grado infine di scorgere un’immagine, di ri-sentire un odore o un suono. C’è poi chi la nebbia riesce a diradarla proprio riafferrando quei ricordi che oggi, appunto, è possibile Scrivere e riLeggere. Merito della persona che ci ha aiutato.

Primo dettato. In aula tutti curvi sul quadernone coi margini. La frase, poco più lunga del solito, è stata appena scandita. Cala il silenzio, intorno odore di gomma per cancellare, libri e carta plastificata. Il tuo atteggiamento è insieme distratto per non mettere eccessiva fretta alla classe, ma anche concentrato ad osservare le piccole teste che pian piano si alzano. Una dopo l’altra. Chi prima e chi dopo rivolge il proprio sguardo alla cattedra. Imbarazzo, bisbigli, occhiate al compagno, mani alzate. Fino a quando l’ultima testolina non si è sollevata. “Beh, che succede? Perché vi siete fermati?”. Il coretto di risposte è unanime “E’ finita la riga!”. Lo sguardo si fa teatralmente sbigottito, la bocca si apre. “E’ finita la riga??? E ora come facciamo?”. Alla domanda sai che non può seguire una risposta e, in quel silenzio, arriva “il colpo di teatro”. “Se è finita la riga, andiamo a casa”. Ti alzi, vai a prendere il cappotto, apri la porta facendo attenzione a tenerla socchiusa, ed esci. Chissà quanto ti devi essere divertita a fare la nostra spettatrice nascosta, mentre ci guardavamo increduli, indecisi se seguirti o meno. A distanza di quasi trent’anni i sentimenti di felicità e fierezza si mischiano. Che bello essere stato parte involontaria di uno spettacolo che ti ha insegnato, divertendoti e senza essertene reso conto, l’”andare a capo”. Un privilegio che pochi bambini, ora divenuti grandi, possono vantare.

Aula Magna di liceo. E’ pomeriggio e dietro le porte serrate si sentono in lontananza i passi degli ultimi studenti che tornano a casa dopo aver frequentato i corsi di recupero. Poi silenzio, di nuovo. L’enorme sala vuota mette un pò paura, mentre mi guardo intorno ripassando il copione. Per la prima volta provo da solo con te e non in gruppo, perché sono stato inserito tra le “prime parti”. Non so se esserne onorato o preoccupato. Di certo però il monologo che devo interpretare me lo “sento” addosso, come fosse il mio “mestiere”. Prima di cominciare, respiro, chiudo gli occhi e ripenso alle tue parole di alcuni anni prima, pronunciate dopo un quaderno dimenticato o un compito a casa eseguito male. “Leggete, cosa c’è scritto sulla carta d’identità vicino alla riga della Professione?”. Le lettere uscivano dalla bocca di noi bambini lentamente “S…T…U…D…E…N…T…E”. Arrivare (puntuali) a scuola, tenere (bene) il proprio materiale, fare (altrettanto bene) i compiti e tanto altro ancora rappresentavano, in quel momento e per i prossimi dieci anni, il nostro unico “mestiere”. E così come gli adulti, non lo potevamo disattendere. “Vi immaginate se io oggi non avessi voglia di fare la maestra: farei il mio mestiere o no?”.

Riapro gli occhi incrociandoli per un istante con i tuoi e inizio. La mia “parte”, il mio mestiere. E poco importa se non c’è scritto sulla carta d’identità, perché oggi sarà così. Ma in quel pomeriggio, mentre sei seduta davanti a me, con il copione sulle gambe accavallate, non sei lì solo per ascoltarmi. Il monologo serve per fare un passo avanti, per leggere qualcosa che non c’è scritto sui documenti, per tirare fuori “un’intenzione” (così dicevi) in più. Terminata l’ultima frase sento un semplice “Bene”. Per alcuni istanti il tuo sguardo è fisso. Pausa teatrale. “Ma lo puoi fare meglio”. Non so se sia così, ma ricomincio. Salgo e scendo con la voce, pause, prima lentamente e poi più rapido. “Fammi vedere quello che stai dicendo!”. Le tue parole arrivano dritte come degli schiaffi, mentre comincio a sudare, sbuffare, imprecare. “Meglio di prima, ma lo puoi fare meglio”. “Ho bisogno di bere – sbotto esausto. Pausa, poi si ricomincia. Non mi ricordo quante altre volte avrò riprovato, è un dettaglio che forse ha poca importanza. Dentro di me conservo solo le battute che riempivano l’aula di immagini e gesta e la fatica (fisica) al termine della prova. A 16 anni non potevo aver realizzato infatti di aver “scritto” una futura riga della mia carta d’identità. Quella di cui andare più fiero.

Quante altre pagine scriverò? Quante e quali parole leggerò? Ora che sei lassù mi sapresti rispondere. E forse avresti sorriso se ti avessi riferito quelle che spesso mi giungono sul lavoro e nella vita. “Ma che bravo…”, “Ma quante cose che hai fatto…”, “Ma come ce la fai…”. A queste parole ho provato a rispondere con altre parole che purtroppo tu non leggerai (o forse sì, chi può dirlo) e che per questo spesso mi sono domandato se avesse senso scrivere. Me lo sono chiesto anche quando mi sono trovato davanti a questa pagina bianca (il 1^ “articolo”) contenuta in una pagina bianca ancora più grande (il mio sito). La “forma” rappresentata dalla scelta delle lettere da pigiare sulla tastiera, una dopo l’altra. E la “sostanza” di tutto ciò che ci avrei inserito. Oggi, prima di tutto, Te, domani e per i prossimi giorni chissà…

Sulla mia mano destra ho “sentito” la tua lunga e affusolata, con le unghie curate, che mi guidava a stare dritto sulla riga, ad andare accapo quando necessario, a non andare fuori tema. Alzando lo sguardo ti ho “visto” seduta in ultima fila di una platea immaginaria mentre scandivi muta le parole.

Scrivere e Leggere: le basi da cui cominciare, che tutti più o meno possiedono, ma non così, non come mi hai trasmesso tu. Ecco l’”orgoglio” di cui ti parlavo, che sento dentro e che non sono riuscito a portarti in scena per l’ultimo spettacolo, il più importante di tutti. Perché in fondo, grazie a te Betty, sono diventato un “recitante della vita”, che è un’attitudine, un modo di porsi che riuscirà a farmi affrontare qualunque situazione, ricoprendo qualunque “parte” la vita stessa mi assegnerà. Che conosca una nuova persona, entri in un ufficio o che mi sieda davanti ad un microfono (anche se a teatro non li utilizzavamo). Sempre col sorriso, sempre a voce alta perché “l’ultimo spettatore deve sentire come quello della prima fila”.

La prossima volta che ti verrò a trovare mi porterò dietro la carta d’identità per fartela leggere. Sotto alla riga della Professione, ne farò aggiungere un’altra che sapremo leggere solo te ed io, e che non si cancellerà mai. Ci sarà scritto “Grazie a Betty”.